Come evitare gli insuccessi nella vita
Alcuni giorni fa, chiacchieravo con mia moglie ed una nostra amica (oltre che mia collega coach) circa le cause che possono portare all’insuccesso. Fra esse, la mancanza di elasticità mentale (e comportamentale) è uno dei fattori che incide maggiormente nel determinare l’insuccesso di una persona o di un’azienda.
Per questo, ho deciso di dedicare quest’articolo a spiegare con qualche esempio i disastri che può provocare l’eccessiva rigidità di approccio nelle diverse situazioni di vita.
La differenza fra obiettivo e ideale (o capriccio?)
A volte, osservando il comportamento delle persone, si può avere l’impressione che esista una certa confusione fra obiettivi e ideali: tra ciò, cioè, che desideriamo ottenere e su cui ci vogliamo e possiamo impegnare per ottenerlo (perché trova riscontro con la realtà), e ciò che, invece, trasformiamo in un assioma assoluto, pretendendo che debba essere così per principio, senza tenere conto di come funzionano le cose.
Situazioni in cui si finisce con l’attaccarsi a rincorrere il “come dovrebbero funzionare”, senza considerare l’esperienza oggettiva di ciò che ci si presenta davanti. L’epilogo è scontato: delusione, perdita di energia, “lotta contro i mulini a vento” e, spesso, anche contro sé stessi.
Per capire meglio, vi porto qualche esempio, frutto di un mix di molteplici casi e situazioni in cui mi sono imbattuto in 20 anni di lavoro in aula come formatore.
Il marito e la famiglia ideali
Francesca (nome, ovviamente, inventato) è cresciuta con il mito familiare di sposarsi e avere figli . Giunta ai 30 anni, si accorge di non essere "ancora" fidanzata. Inizia, allora, la ricerca spasmodica di un fidanzato per poi proseguire, non appena fidanzata, facendo pressione sul suo compagno per sposarsi e avere figli.
Uno dopo l’altro, i fidanzati “fuggono” mentre Francesca continua “indomita” la sua ricerca…
La fedeltà cieca di un imprenditore alla “casa madre”
Un imprenditore ha come obiettivo primario della sua nuova attività commerciale in franchising quello di offrire un servizio eccellente al cliente. Nei primi anni, l’accuratezza del servizio offerto porta a risultati aziendali eccelsi fino a che, però, qualche anno più tardi, il fatturato inizia a calare lentamente.
Nel frattempo, la casa madre, titolare del brand, diventa sempre meno generosa nel concedere premi e, soprattutto, gli chiede sempre più spesso di proporre ai clienti servizi aggiuntivi con migliore marginalità, pur se non idonei a soddisfare un reale bisogno del cliente.
A questo si aggiunge anche l’innovazione rivoluzionaria a cui è sottoposto il loro settore di attività: cambiamenti che, però, la casa madre non mostra di voler “cavalcare” per coglierne le nuove opportunità di business.
Alcuni dipendenti si fanno avanti per segnalare al nostro imprenditore di mettere in conto la possibilità di cambiare partner commerciale (brand) oltre che di rivedere le proprie strategie di vendita; purtroppo, però, le segnalazioni dei collaboratori cadono nel vuoto perché la sua affezione e fedeltà nei confronti della casa madre non gli consentono di valutare nuovi scenari più favorevoli per la sua attività.
Finché, a un certo punto, sono gli stessi clienti che, nel suo negozio, iniziano a chiedere un servizio più “moderno”, adeguato all’evolversi della tecnologia. L’azienda, non in grado, a questo punto, di rispondere a dovere alle nuove esigenze della clientela, persiste nel perdere ancora più fatturato. Ma l’imprenditore dà la colpa alla crisi e nulla cambia (se non in peggio!)…
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Il mito del “posto fisso”
Giorgio cresce con il mito del posto fisso. Lo trova e il lavoro gli piace. Diventa bravo, molto bravo nel suo lavoro, e fa carriera. Finché un giorno in azienda cambiano i vertici: con la nuova dirigenza, le nuove assunzioni iniziano a seguire “logiche clientelari” più che sui meriti. Giorgio si ritrova circondato da colleghi più giovani, inadeguati a svolgere bene il loro lavoro ma che, nonostante le loro lacune, iniziano a fare carriera perché “sponsorizzati”.
Uno dei colleghi anziani di Giorgio, con cui ha sempre avuto un ottimo rapporto, decide di lasciare l’azienda per mettersi in proprio e chiede a Giorgio di diventare suo socio in affari. A Giorgio la proposta piace parecchio, ma alla fine rifiuta per paura di lasciare il “posto fisso”.
L’azienda, dopo un po’, inizia ad avere problemi finanziari e Giorgio, pur di mantenere il suo posto, accetta condizioni di lavoro più precarie e meno favorevoli (anche economicamente). Finché, un bel giorno, l’azienda in cui Giorgio lavora fallisce…
Cosa hanno in comune questi casi?
E’ abbastanza evidente che una certa ottusità mentale e la poca disponibilità a guardarsi attorno nel concreto siano un fattore comune alle tre differenti storie narrate in precedenza.
In diversi casi, la vita ci invia dei “messaggi” che dobbiamo imparare a saper cogliere.
Avere questa attenzione ai segnali intorno a noi può evitarci di finire nel baratro e di seguire, invece, flussi di vita e di lavoro più benestanti.
Ma quali sono questi indicatori (interni ed esterni a noi) che si attivano per segnalarci una realtà che si muove in modo diverso dai nostri ideali, cioè da come vorremmo (o meglio pretenderemmo) che funzionassero le cose?
In quest'articolo parlerò di questi indicatori di “disallineamento” fra realtà e idealizzazione e, soprattutto, di come arginare il problema cambiando modo di pensare (e di agire!).